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IL TRENO: breve racconto distopico


 Per pochi l'avvenire era un treno che sfrecciava nel tempo, lasciando ai lati dei binari baracche e miseria, tra immondizia e morte sopravviveva la moltitudine.

Provavamo pena per le famiglie sporche e denutrite, accampate ovunque lì fuori e che distrattamente osservavamo dai finestrini.

Il treno sfrecciava così veloce che la pietà non faceva in tempo a divenire sdegno.

Tutto restava in superficie. Il film del lato peggiore della vita veniva proiettato all'esterno di un vetro e i viaggiatori non guardavano per ore l'oscuro panorama.

Ci ricordava i bei tempi, quando cambiavamo canale televisivo con un dito a pigiare su un pulsante, al comparire degli stomaci gonfi sui volti emaciati e scavati di bambini denutriti.

Allora potevamo far tacere le nostre coscienze perché miseria e morte abitavano luoghi remoti, e pensavamo che tutto questo non potesse mai arrivare nelle nostre terre ricche e inquinate.  

Invece arrivò, lentamente ma inesorabilmente. Miseria, malattia e morte, conquistarono palmo a palmo immense distese di terra portando la disperazione anche da noi.  Non eravamo pronti, per niente preparati.

Il dito pigiava un pulsante che non c’era e non potevamo cambiare canale, spegnere l’immagine, rimuovere tutto quell’orrore saltellando allegramente tra un canale e l’altro. L’indice dei nativi digitali cliccava il pulsante sinistro del mouse o sfiorava l’immaginario touch screen per cambiare sito internet o rimuovere quell’angosciante post, abituati da sempre a pensare la realtà in termini immateriali. 

Invece era tutto così vero che la storia bussò alle nostre porte dopo settantacinque anni di ricreazione. La cosa più drammatica e beffarda al contempo? Quelli che riemersero dalle macerie e costruirono la nostra ricreazione, erano già morti o troppo vecchi per insegnare a noi come vivere e resistere alla disperazione indiscriminata della tragedia collettiva.

Ci trovammo all’improvviso in mezzo alla distruzione, orfani di maestri che vissero gli anni dell’ultima guerra e genitori o nonni di giovani avatar che vivevano immersi nelle grafiche accattivanti di un mondo virtuale.    

Fu allora che tra tutte le meraviglie ipertecnologiche, le menti più geniali del 2040 convennero che, data la situazione, l’unico modo per salvare una parte dell’umanità fosse quel mezzo così antico, ottocentesco, semplice e resistente: il treno!

Il treno non faceva fermate, era provvisto di tutto l'occorrente per una vita accettabile.

La locomotiva non poteva mai smettere di emanare una enorme potenza perché si alimentava del proprio movimento.

La macchina più grande di tutti i tempi era stata progettata per non fermarsi mai e urlava tutta la sua energia, trascinandosi dietro l'intero mondo di quelli che erano stati scelti per salire sul convoglio.

Avevano unito tutti i binari del mondo in una sola e infinita linea ferrata. Il treno bucava le montagne e si immergeva in lunghi tunnel sottomarini, così da girare in cerchio lungo tutto il globo.

Ogni volta che attraversavamo le cosiddette “zone morte”, dove non era sopravvissuto nessuno e il paesaggio era di avvoltoi appollaiati su cataste di cadaveri, sui finestrini venivano proiettati patetici spettacoli di stupidità, talmente privi di senso da lasciarci senza domande sul futuro.  

Spesso scoppiavano liti tra i passeggeri ma nessuno aveva veramente voglia di fare la guerra perché la ferocia infuriava nel mondo di fuori.

Accettammo tutto perché quello che vedevamo dai finestrini ci spaventava troppo.

Qualche viaggiatore cominciò a raccontare che sui finestrini veniva proiettato un filmato e che quello che vedevamo, tutta quella miseria, la morte e la disperazione, non era reale ma costruita solo per terrorizzarci e farci rimanere per sempre chiusi lì dentro.

Tramite un efficiente servizio di spie, i sostenitori di quelle teorie vennero individuati e i delatori conquistarono i vagoni più ambiti.

I teorici dei “finti finestrini” vennero buttati dal treno nel mondo feroce, selvaggio e privo di leggi del di fuori. Quella sera tutti videro lo scempio che venne fatto dei loro corpi. I diseredati fuori del treno non aspettavano altro che infierire su quei disgraziati.

Tutto venne trasmesso sui finestrini in una maratona televisiva di un vecchio giornalista che ancora amava l’adrenalina della “edizione straordinaria”. 

Era il 2060 e il treno correva col suo carico di umanità attraverso il mondo da venti anni, in cerchio, senza mai fermarsi.

Avevo ormai ottanta lunghi anni e come tutti gli anziani venni trasferito nell’ultimo vagone, il peggiore, quello riservato a chi aveva ancora qualche memoria del mondo prima del treno.

Un giorno staccarono il vagone dei vecchi non a caso l’ultimo del convoglio.

Si aprirono le porte e una volta scesi, claudicanti, malati e acciaccati dalla veneranda età, ci trovammo di fronte a prati, fiori, costruzioni avveniristiche abitate da esseri umani bellissimi, prestanti e senza tempo.

Ci si parò di fronte uno di loro, con una tunica bianca e uno sguardo penetrante.

«Facciamo sempre scendere i vecchi per fargli vedere la realtà», disse con tono ieratico quell’uomo.

«Abbiamo creato il treno per costruire questo paradiso per noi, i migliori», aggiunse con una buona dose di sadismo.

«Prima di morire è giusto per voi sapere la verità», affermò in tono pietoso.

Diresse le mani giunte verso di noi e morimmo sfumando tra le nuvole.


Copyright © scritto e fotografato da martinedenbg.

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