Schiavi senza rumore di metallo trascinato, attaccano l'anima ogni giorno al bip bip di una striscia nera magnetica. Suona la cella che chiamano lavoro, suona la cella che chiamano libertà. Figli di operai e di artigiani, nipoti di contadini, lontani discendenti di oppressi sporchi di terra e sterco bovino, marciano nella cella che chiamano lavoro, marciano nella cella che chiamano libertà. Figli di uomini e donne che indossavano l'orgoglio dell'origine, nipoti di gente china sulla fatica sotto il peso della minaccia, pronipoti di servi ubbidienti ma con la scintilla del disprezzo negli occhi, elemosinano nella cella che chiamano lavoro, vagano sperduti nella cella che chiamano libertà. Non un solo lamento di quegli avi sveglia il loro incedere, non una scintilla di odio illumina i loro occhi, non una sola lacrima li rende umani, non un’eco lontana delle urla della fame scuote la loro ipnosi. Laboriosi saltellano nella cella che chiamano lavoro, felici e inebetiti dormono nella cella che chiamano libertà.
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