L'erba generosa del parco cittadino, ferma in mezzo al mare di cemento come macchia di abbagliante verde, nel tetro grigio oceano d'infinito asfalto.
Onde di palazzi alte e possenti, si stagliano paurose sull'orizzonte cieco e piccole barche sfidano il periglioso spazio, per un approdo negli alberi e il canto degli uccelli.
I padri lanciano l'ancora come naufraghi alla deriva urlando: «terra!».
Le madri tengono stretta al petto la fragile prole e tutto quel tempo trascorso nell'artificio umano, svanisce al primo passo tra i colorati fiori.
Il lavoro che è il padre, la produzione che è il figlio e il consumo che è lo spirito santo. Il mantra ora appena riecheggia nelle menti dei fuggitivi, così subitaneamente immersi nel bucolico sentore.
L'unica santissima trinità sopravvissuta ai tempi, sparisce al primo iconoclasta scricchiolar di foglia, sotto il piede entusiasta del bambino al primo salto urlante.
Così passa la giornata tra giochi, cibo e profumi di arbusti in fiore e il sole, vera divinità profana di quel tempo arioso, scorre veloce verso l'imbrunire.
Presto sarà già il tempo di tornare, ognuno nella propria cella e senza bisogno di guardie a controllare: le chiavi sono di carta e i muri sono mutui a vita.
La notte calerà su tutti e qualcuno guarderà il mondo solo da uno schermo.
La notte calerà su tutti e qualcuno invano cercherà una stella, stringendo le fredde sbarre alla finestra.
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