La segretaria del “cerchio magico”, quella che non rivolge neanche una parola a noi umili impiegati, presa com’è tutto il giorno fino a tarda sera, a servire con efficienza teutonica unita ad una bellezza austera il nostro capo dei capi, viene addirittura a prendermi fin dentro al mio cubicolo di vetro pieno di miei simili che, trasecolando con sguardo ebete, assistono impietriti all’inaudita scena.
Resto per qualche secondo a cercare negli occhi dei miei colleghi un po’ di “sconforto”, perché già so che non troverei conforto nelle loro pupille vitree, e finalmente riesco a stringere la mano della “dama d’onore” della nostra aristocrazia, alzandomi faticosamente dalla mia seduta che scivola indietro con rumore di rotelle usurate.
Non appena sono di fronte al suo pregiato tailleur, si volta con uno scatto nervoso e fulmineo dandomi la schiena, e iniziando a camminare lungo il corridoio principale con ampie falcate mi costringe ad inseguirla come un cane zoppo appena abbandonato.
Dal corridoio dei comuni mortali entriamo in quello delle divinità e i nostri passi ora sono attutiti da una lungo tappeto pregiato che si srotola elegante e morbido, setoso e avvolgente, e all’interno di questa scenografia stride ancor più di prima il movimento da ballerina dell’altezzosa segretaria, che pare dover compiere un grand jeté da un momento all’altro, col mio di passo goffo e primordiale, acquisito sui campi di calcio tra sputi e bestemmie nella mia infanzia di periferia.
Siamo arrivati di fronte alla sala specchiata e dall’interno si aprono le porte, un tavolo lunghissimo di splendente cristallo mi si para davanti. Seduti tutti intorno i capi nei loro abiti di sartoria mi guardano accogliendomi con sorrisi melliflui e in fondo alla sala, su una poltrona discosta da tutti, il capo di tutti mi studia con calma serafica eredità del suo alto lignaggio.
Parlano a turno con una strana accondiscendenza nei miei confronti mai usata prima.
I toni di benevolenza vibrano falsi dalle corde vocali aduse ad ogni blandimento, e quegli occhi acquosi così privi di empatia sono rivelatori delle loro ingannevoli intenzioni.
Io sto lì, fermo nei mie vestiti da grande magazzino, a volte troppo larghi, altre troppo stretti, e ascolto laicamente, lasciandoli continuare nei loro vaniloqui da estremisti aziendali radicalizzati.
Mi offrono più soldi per lavorare più ore, parlano di prospettive, come sempre abusano della parola “crescita”, e dopo iniziano a dirmi che sono sprecato con le mie potenzialità per restare ai livelli più bassi della gerarchia aziendale.
Quando hanno finito di parlare con la lingua ficcata nel culo del loro padre padrone, tanto da non riuscire a coglierne tutte le parole, uno di loro si alza in piedi e si avvicina mettendomi una mano molliccia sulla spalla e chiedendomi cosa ne penso.
Io lo guardo negli occhi e gli sputo in faccia.
La mia nobile saliva di uomo libero cola dal suo viso fin sulla costosa cravattina.
A quel punto è il gelo. Tutti mi guardano e non capiscono, interdetti con lo sguardo nel vuoto.
Il capo dei capi invece mantiene il controllo e come uno scienziato in laboratorio osserva, annota mentalmente, studia l’esperimento.
Nel silenzio di tomba urlo: «Quanto vale?»
Si guardano tra loro cantando all'unisono: «Quanto vale cosa?»
Nell’atmosfera ormai tesa ripeto: «Quanto vale?»
Le mascelle pronunciate masticano silenzio e tutti a sistemarsi quei cazzo di ciuffi e riporti e acconciature da top manager.
Glielo ripeto ancora una volta: «Quanto vale?»
I muscoletti guizzanti allenati all’alba dal loro personal trainer, si contraggono sotto la giacca elegante, dando alla loro figura un atteggiamento aggressivo di bestia pronta alla lotta.
Dopo il primo momento di smarrimento mi circondano come un branco di lupi, e ora sono così vicini che sento il respiro dei predatori.
Ma si sono avvicinati troppo e li ho nel mirino, non posso sbagliare e finalmente premo il grilletto.
Il mio proiettile è la risposta che cercavano.
Dico con voce stentorea, «il mio tempo quanto vale», e li lascio lì tramortiti dalla mia “frase proiettile”.
Cadono tutti tramortiti sotto il tavolo di cristallo, e non sanno rispondere alla mia domanda perché conoscono solo il tempo denaro.
Sono stanchi e posso finirli con la mia ninna nanna del tempo che ucciderebbe il più spietato manager del mondo.
Comincio allora e la mia nenia recita più o meno così:
ho bisogno di tempo per pensare
ho bisogno di tempo per cantare
ho bisogno di tempo per creare
ho bisogno di tempo per suonare
ho bisogno di tempo per amare
ho bisogno di tempo per studiare
ho bisogno di tempo perché con mia figlia voglio giocare
ho bisogno di tempo per scrivere
ho bisogno di tempo per ridere
ho bisogno di tempo per vivere
L'ultimo verso li uccide ed è il mio colpo di grazia.
Alzo lo sguardo e il capo dei capi se la ride. Non gli importa dei suoi servi, come ogni despota non tiene alla vita dei suoi mercenari.
Ho conservato un proiettile per lui.
Vado vicino alla sua faccia fissandolo negli occhi e gli dico: «Ho bisogno di tempo per non fare nulla!»
Muore sul colpo anche lui. Il cuore non ha retto.
Io me ne vado col mio tempo in tasca, lasciandomi dietro tutti quei morti che ora non avranno più tempo da rubare agli altri.
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