La lingua colpiva appena sotto il pelo dell’acqua, poi si fletteva all’indietro nella bocca come fanno i cani per bere.
Prono sul terreno gattonava come un infante, passando da una pozza d’acqua all’altra delle tante che si formavano nella sua stanza naturale.
Quel buco circolare eletto ormai a sua dimora, per forza di gravità era il punto di arrivo di rigagnoli piovani e di ogni sorta di allagamenti, tanti abbeveratoi che spuntavano da sotto il pavimento di foglie cadute.
Limacciosa, torbida, impura, condita di terra e uova d’insetti, la liquida mistura che ingeriva, venefica e salvifica ad un tempo, scendeva dalla gola lungo l’esofago fino a riempire lo stomaco ormai ridotto dal troppo digiuno, ad una sacca sgonfia e contratta dove i succhi gastrici reclamavano cibo solido da digerire.
Dopo aver bevuto in quel modo per almeno un’ora, cominciava ad avvertire una sensazione d'idratazione invadere ogni fibra e muscolo, ricavandone un’energia vitale per affrontare la sua giornata che iniziava, a differenza della vita fuori dal bosco, col buio e il freddo umido del tardo pomeriggio.
Intanto, mentre la sera s’inoltrava velocemente verso la notte man mano che le stelle divenivano più luminose, e il buio del bosco, nero e freddo come lo sguardo di un cieco rinchiuso in un frigorifero, si riempiva dei versi di uccelli insonni, pensava che era l’ora di tornare in superficie risalendo la parete verticale.
Così, aggrappandosi alle stesse radici da cui era disceso, con un’agilità dettata dall’adrenalina del suo stato primordiale più che dalla forza dei muscoli, usciva sul sentiero allo scoperto e completamente esposto alle paure ataviche delle tenebre.
Camminava osservando l’ambiente circostante e a differenza della notte precedente, la prima nel bosco quando era animato solo da un movimento meccanico e inconscio, ora avanzava con un grammo in più di consapevolezza.
Lungi dall’essere presente a se stesso, distante da una parvenza di lucidità mentale e per nulla padrone delle proprie facoltà, quella piccola sensazione di consapevolezza che aveva percepito, a dire il vero un granello di sabbia nel deserto del suo ottundimento, pareva comunque il segno dell’inizio di un processo di risveglio da quella sorta di automatismo istintivo e primordiale che in quel nuovo mondo l’aveva condotto.
Provava una fame profonda da naufrago e una spossatezza del corpo svuotato alla deriva in un mare di piante e terra, come perso in un oceano verdeggiante increspato di onde erbivore e dalle profondità verminose.
Tutta quella oscurità era sorprendentemente oscura per l’occhio cittadino, abituato a quel nero reso timido dai fuochi fatui dei lampioni rugginosi, storti e ammaccati, mal piantati nell’asfalto crepato e intriso di olio di motore, piscio di cani e memorie atroci del calpestio umano.
Tutta quella oscurità era paurosa ma bella, sgombra dagli artefatti umani, fatta da un silenzio puntellato da suoni naturali e con un cielo stellato da guardare e ammirare in una continua estasi per gli occhi.
Bastava alzare lo sguardo per trovare conforto e poesia in un’ammirazione per lo sconfinato universo che pareva di pregare senza proferire verbo.
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