La scala mobile continua a scendere nelle viscere di fango, sabbia, pietre, topi, fogne, tubi, cavi, ossa e vermi ciechi divoratori di carcasse interrate.
Entro nel treno, trovo uno spazio dove proteggermi dagli altri, e come sempre la sensazione di un tempo rallentato rispetto a quello che scorre in superficie mi percuote le sinapsi.
Devo ancora riavermi dai tormenti della notte insonne, colma di incubi alternati a sogni di una vita migliore, e così stordito e privo di lucidità sono costretto a stare in questo budello scavato nelle profondità terrestri.
Devo ancora tornare in me dalla tortura di una notte agitata, piena di risvegli e affanni, e così annichilito e scosso, incredibile a dirsi, sono forzato addirittura a viaggiare dentro questo intestino urbano, a bordo di un treno così vecchio da sembrare una scatola di ferro sferragliante di ruote rotolanti montate a caso da un maldestro saldatore.
Così messo, come se non bastasse già la pena di dover stare sotto terra come i topi di fogna, subisco altre torture. Il passeggero querulo, la logorrea di chi viaggia in coppia, il sorriso rivolto allo schermo del telefono di chi rilegge il bel messaggio ricevuto, il solitario cinquantenne pingue che incredibilmente fischietta un motivetto tanto è felice di andare a lavorare, i giovani irretiti dal falso sapere delle università che ripassano fogli di appunti pasticciati, la signora atletica tutta palestra e chirurgia estetica con l’immancabile borsa porta vivande per un’alimentazione sana ed equilibrata, il tossico che va a prendere il metadone, l’elemosinante che mette in scena la solita litania porgendo a tutti un piattino per le offerte, e tutto un campionario di casi umani, me compreso, che potrei continuare a scriverne per ore.
Sarò il solo a pensare che se arrivasse un terrorista suicida al grido di “Allahu akbar”, trasformando l’intero convoglio in una gigantesca palla di fuoco sarebbe la cosa migliore? Forse sì, ma sono un disadattato lo sanno tutti e lo so anche io, e così mi risveglio da questo pensiero scacciandolo dalle mie meningi.
D’improvviso il fischio assordante anticipa di un secondo la chiusura delle porte, le immagini fuori dal finestrino scorrono all’indietro, e un enorme sollievo di sospiro collettivo esplode dai corpi di chi vuole arrivare presto al patibolo quotidiano con i petti ansimanti e il rumore delle gabbie toraciche che pronunciano un glorioso: «É partita!»
Alla seconda delle sei fermate che mi condurranno al mio palcoscenico dell’osceno una scolaresca in gita invade il convoglio. Salgono tutti ridanciani e pieni di ormoni facendo un rumore assordante! Non posso muovermi e il mio sistema nervoso ancora non è pronto ad una simile invasione di gioia e freschezza. Cerco di non guardare la festa della gita: luce di gioventù, sentore di speranza e odore di avvenire. Tutto contrasta eccessivamente col mio intorpidito e disperato viaggio e l’ossimoro emozionale che ne deriva è dilaniante. Sento i tagli dentro la mia anima ad ogni sillaba di spensieratezza, un coltello affilato di felicità che pugnala il mio cuore scuro e prossimo a fermarsi per sempre.
Dovevo chiudere gli occhi o scendere veloce alla successiva fermata e invece, da bravo masochista, decido di farmi veramente male e mi avveleno di una meravigliosa scena di due ragazzine allegre che recitano una cantilena girando per mano attorno ad un palo di sostegno. Una visione poetica di reminiscenze infantili in corpi che stanno diventando “donne”. Quell’età di confine dove il gioco bambinesco lascia spazio al gioco della vita adulta e in questa commistione temporale vi è tutta la dolcezza del mondo. Un sincretismo anagrafico da colpire perfino uno come me, pronto ad un rabbioso e cinico anatema e finito invece a commuoversi.
Mi ravvedo immediatamente e per cacciare quell’emozione che ha fatto breccia nel mio cinismo, comincio nella mia testa un ragionamento tortuoso e impervio e mi convinco che in fondo tutti i cuccioli sono belli, perfino i piccoli degli animali più schifosi: il serpente piccolo ti fa tenerezza e il piccolo di coccodrillo ti commuove. Tutti i cuccioli sono belli perfino quelli più pericolosi pronti da adulti a sbranarti senza pietà: il piccolo di tigre è dolce e quello dell’orso è incantevole. L’uomo non fa certo eccezione.
Finalmente arrivo alla mia fermata, le porte si aprono e mi catapulto fuori e su per la scala mobile per tornare in superficie a vedere il cielo.
A passi svelti smarco orde di turisti coi loro trolley per raggiungere il lavoro.
Entro, devastato e senza alcuna speranza, allora penso agli psicofarmaci che ho nel mio zaino, al sollievo che mi darà l’Oxcarbazepina ma devo aspettare mezzogiorno, all’euforia che mi provocherà il Clonazepam ma devo aspettare le tre del pomeriggio e così mi avvio rassegnato alla fossa che mi sono scavato in tutti questi anni.
Un pensiero mi viene all’improvviso quando un tempo mi chiedevo, guardando documentari sulla seconda guerra mondiale, perché quei prigionieri si scavavano la fossa se tanto sapevano di dover morire? Perché non si ribellavano a quell’estremo atto di umiliazione?
Ecco la riposta davanti a me: l’alienazione!
Sollevo lo sguardo dopo il bip del badge, la centralinista della reception esplode in una sonora risata e stava guardando me ma rideva per altro o forse no. No era evidente stava guardando proprio me e resto col dubbio.
Finalmente ci sono anche oggi, sono arrivato: entro nella fossa e anche oggi è una finta esecuzione.
Copyright © scritto da martinedenbg.
Commenti
Posta un commento